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Non invidio i lavoratori dell’Ilva e nemmeno gli abitanti dei quartieri di Taranto, circostanti la più grande acciaieria d’Europa. L’occupazione è in pericolo e l’ambiente è devastato dalle emissioni. Ora c’è la chiara condanna dei dirigenti dell’azienda da parte della Corte d’Assise di Taranto ed il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento. Punto. Concluso il ruolo della Magistratura, si ripropone la domanda sul futuro dei lavoratori, dei cittadini, degli imprenditori. Con una sentenza in mano non si fa politica industriale, occupazionale ed ambientale. La palla ritorna ora alle parti sociali, agli investitori, alla Politica, ma si riparte da un livello ancora più basso di prima, con relazioni sociali compromesse. La strada è quindi molto in salita e lo sbocco, se ci sarà, non potrà che essere quello di accordi multilaterali tra le parti pubbliche e private in conflitto tra loro da decenni. Uno sbocco difficile, se non utopistico.
La strada di Taranto non è però l’unica: a livello nazionale ed internazionale, a fronte di gravi crisi industriali e conseguenti necessità di ristrutturazione, si sono adottati altri metodi, rivelatisi in definitiva vincenti.
Le parti coinvolte hanno affrontato la sfida del confronto anche aspro, con l’occhio puntato alla possibile riconversione ecologica e produttiva delle aziende. In molti casi ci sono riuscite e ora le aziende (siderurgiche) funzionano nel rispetto delle regole.
Anche Bolzano ha un’acciaieria in città. Le prime abitazioni sono a poche centinaia di metri dai forni. Anche a Bolzano la crisi dell’acciaio ha colpito duro tanto che l’imprenditore proprietario (la famiglia Falk) aveva deciso nel 1995 di chiudere la fabbrica e dismettere gli impianti. I cittadini bolzanini dei quartieri circostanti lamentavano con forza la diffusione di polveri e rumori. In più, come sempre a Bolzano, la fabbrica era oggetto di una forte polemica etnica, in quanto essa era, nella percezione della popolazione sudtirolese locale, il simbolo della italianizzazione forzata della provincia (e quindi poteva e doveva chiudere). Gli ingredienti del potenziale conflitto sociale ed etnico erano tali da ridurre a zero le possibilità di soluzione. Ci è voluta la forza del pragmatismo sudtirolese dell’allora Presidente della Provincia Autonoma, Luis Durnwalder (dopo messe a tacere le frange estreme del suo partito) per affrontare la società Falk con la minaccia dell’esproprio dei terreni, contro il quale Falk stesso avrebbe fatto ricorso, ma anche con la lusinga di una generosa buonuscita. Risultato: Falk ha lasciato lo stabilimento non prima però di aver passato gli impianti alla società Valbruna degli Amenduni. A questa società subentrante, la Provincia (proprietaria a questo punto dell’area) ha concesso in affitto lo stabilimento per 30 anni, ha imposto il risanamento ambientale e il mantenimento dei posti di lavoro. A questo punto il cerchio si è chiuso con le garanzie reciproche tra le parti. Lo stabilimento prosegue la sua attività tanto che gli acciai di Bolzano sono stati utilizzati anche per il nuovo ponte di Genova.
Lavoro, ambiente, produzione. Senza bisogno dei Tribunali.
(www.albertostenico.it)
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